Avevo capito che rinunciare a se stessi, non amarsi è come sbagliare a chiudere il primo bottone della camicia. Tutti gli altri poi sono sbagliati di conseguenza. Amarsi è l'unica certezza per riuscire ad amare davvero gli altri.
Fabio Volo dal libro "È una vita che ti aspetto"




mercoledì 15 dicembre 2010

Abbandono e dipendenza affettiva


Un tema che mi sta particolarmente a cuore...ho trovato questo bell'articolo e ve lo ripropongo...
Buona vita a tutti

Il cammino della crescita umana è costellato di perdite, di rinunce. E’ rinunciando che cresciamo. E’ abbandonando ciò che appartiene al nostro passato che diveniamo capaci di acquisire il nuovo, utile per il nostro futuro.
Uno dei modi migliori per capire la nostra personalità è capire come affrontiamo la perdita. Ciò che siamo nella vita, o che diventiamo, è determinato dalle nostre esperienze di perdita e dal modo in cui le viviamo, le metabolizziamo, e, eventualmente, le superiamo.
La nostra vita comincia con la perdita, con l’abbandono e con un tradimento: quello di nostra madre. Siamo catapultati nella vita, dal grembo materno, piangenti, sporchi, affamati e dipendenti. Indifesi e costantemente bisognosi d’aiuto. Per mangiare, per bere, per pulirci, per soffiarci il naso, per dormire, per cambiarci d’abito. Nulla siamo in grado di fare, senza aiuto. Senza l’aiuto di nostra madre, di colei che per prima ci ha abbandonato mettendoci al mondo. E’ lei, solo lei, che può aiutarci a superare quella prima perdita. Quel primo misterioso, esagerato senso d’angoscia. Possiamo provare ad immaginare quanto può far paura la luce, dopo nove mesi di buio. Quanto può essere assordante la musica o una voce o il rumore di un bicchiere che cade dopo che per nove mesi tutto ci è sembrato ovattato, filtrato, lontano. Anche dal suono, dal rumore ci ha protetto nostra madre, per nove mesi. Poi, mentre crescevamo nel suo grembo, cominciando a prenderci gusto, siamo stati catapultati fuori. Senza essere interpellati, senza essere stati preparati. Ognuno di noi, anche se non ne ha memoria, ha subito da neonato il suo primo “sfratto”.Quanto è doloroso, per un adulto, uno sfratto? Quanti ricordi, quante abitudini siamo costretti a perdere, a lasciare tra quelle pareti che hanno contenuto la nostra vita?
Tanto, troppo doloroso. 
Immaginiamo cosa possa significare per un neonato. 
E’ nei primi giorni di vita che cominciamo ad apprendere che per crescere dobbiamo lasciare, perdere.
Qualche mese dopo sarà la volta della tetta, a cui ci eravamo abituati, a quel profumo di madre, a quel corpo caldo che sarà sostituito da braccia sempre più sconosciute e scomode, da “ciucci” e biberon sempre più freddi e che “odorano” di plastica. Chissà quanto l’ abbiamo odiato il biberon. Eppure, anche a quello dovremo rinunciare. Per crescere. E ci chiedono di rinunciarci, proprio quando cominciamo ad accettarlo, sterile surrogato materno.
Molte mamme, accompagnano i loro figli in questo viaggio fatto di perdite, abbandoni e nuove scoperte. Molte, non tutte. 
Alcune lasciano i loro figli, prima che siano abbastanza grandi per capire che la mamma tornerà, che è solo andata a far la spesa o a far visita alla vecchia zia.
E’ qui che sorge, l’angoscia più grande. La paura che lei non torni, che ci abbia abbandonato per sempre. I bambini non hanno cognizione del tempo. Per loro un’ora è lunga un giorno, un giorno una settimana, una settimana un mese. Questo li porta a provare sentimenti di angoscia molto forti perché “protratti nel tempo”. Sicuramente sopravviviamo, siamo tutti sopravvissuti alle assenze materne. Ma queste ci fanno conoscere un senso d’abbandono e un’angoscia tali che, qualora non siano adeguatamente superati, possono accompagnarci per la vita.
E’ la madre, l’unica in grado di attutire quest’angoscia. 
Perché l’unica angoscia che abbiamo da piccoli è la paura di perdere lei.
L’angoscia da separazione nasce da una profonda verità: senza qualcuno che si occupa di noi, non possiamo sopravvivere.
 E quel “qualcuno”, in genere, è la mamma.
Come dicevamo, tutti siamo sopravvissuti alle assenze di nostra madre, ma non tutti le abbiamo elaborate e superate allo stesso modo.
Valeria ha quattro anni. E’ in vacanza con la famiglia, al mare. Nella piccola villetta presa in affitto c’è un grande giardino. Valeria ci passa gran parte del pomeriggio. Di mattina, mamma e papà, la portano al mare. Valeria è figlia unica. E’ una bambina felice, una principessa, forse un po’ viziata. Sua madre, non lavora e passa tutto il suo tempo con lei. Ogni desiderio di Valeria per sua madre è un dovere, un impegno. Valeria non ha mai fatto capricci, non è mai stato necessario. Lei ha chiesto e ottenuto. In uno di quei pomeriggi d’estate, in giardino, Valeria gioca con la sua nuova bicicletta. Una “Graziella “rosa. Da quella bicicletta Valeria cade. Nel piccolo ospedale di provincia, dove la ricoverano, non è concesso a sua madre di rimanere con lei. La piccola ha battuto la testa e ha riportato un grave trauma cranico. Si è rotta una gamba ed avrà bisogno di due interventi. Valeria piange si dispera, vuole sua madre a tutti i costi. Per la prima volta, sua madre è costretta a dirle di no. No, Valeria, non è possibile. La piccola si sente abbandonata, tradita. Passa in ospedale due lunghissimi mesi della sua vita, con la possibilità di vedere la madre solo per due ore al giorno. In orario di visita. Un giorno, un’infermiera toglie a Valeria il pigiama rosa e inizia a vestirla. Finalmente può tornare a casa. I genitori arrivano in ospedale per portarla via, ma Valeria dice di non conoscerli.
Ha paura di loro e con loro proprio non ci vuole tornare. 
La reazione di Valeria, la sua difesa, in psicologia si chiama distacco. E’ una difesa tipica delle persone che si sono sentite abbandonate, dopo essere state a lungo eccessivamente legate a qualcuno. La paura di aver investito troppo e di aver perso, la paura di essere nuovamente abbandonati li porta ad assumere, dalle persone che amano, una sorta di “distanza di sicurezza”.
Il distacco è paragonabile ad una sorta di chiusura dei canali affettivi, dei sentimenti. Serve a punire la persona che ci ha abbandonato, ma anche a mascherare la rabbia e l’odio che proviamo nei suoi confronti. E’ anche una difesa, un modo di difendersi da quella che poi diviene la paura di amare e quindi di essere abbandonati. 
In queste persone la convinzione che amore = abbandono diventa una regola di vita. L’assenza, il vuoto non li rende più dipendenti, ma più freddi. Distaccati. Il doverci difendere da sentimenti molto forti è qualcosa che impariamo molto precocemente.
Ognuno, cerca dentro di se ed in base alle proprie esperienze, i propri meccanismi di difesa. Il suo modo per sopravvivere. 
Una difesa, come abbiamo visto è il distacco affettivo. Il bambino che, proprio come Valeria, sente di aver bisogno di sua madre e sua madre non c’è, impara, fin da piccolo e a sue spese, che amare può essere troppo doloroso.
Può decidere a quel punto che è più semplice non legarsi, non aver bisogno di nessuno. Nei suoi rapporti futuri inizierà a non chiedere, per non dover dare. A non investire, per non aspettarsi nulla. Diventerà distaccato. Molti bambini adottano un’altra strategia difensiva: l’autonomia. Crescono precocemente perché, non dimentichiamolo, l’attaccamento nasce dalla necessità, dal bisogno. Sono bambini che imparano a non aver bisogno di nessuno, che sviluppano una autonomia spesso prematura. 
Sono bambini che non permettono che la loro sopravvivenza, la loro crescita dipenda da qualcun altro.
Altro modo per difendersi consiste nell’esorcizzare la paura dell’attaccamento affrontandola costantemente, giorno dopo giorno. Un continuo mettersi alla prova che ha lo scopo, in un certo senso, di farci abituare all’attaccamento e poi alla perdita. E ancora all’attaccamento e ad un’altra perdita. Molte di queste persone passano la vita dedicandosi al dolore altrui. Ad alleviare il dolore altrui. Aiutare quelli che soffrono diviene un modo per allontanare il proprio dolore, per ascoltarlo di meno, razionalizzandolo e paragonandolo a quello, “ovviamente” più forte, degli altri. Sono persone che decidono di diventare medici, infermieri, psicologi, oppure preti, suore, o semplicemente volontari, missionari o crocerossine. Alcuni studiosi, in questi casi parlano di co-dipendenza. Il co-dipendente è colui che, anche senza volerlo, ma poiché ne ha bisogno, incita la dipendenza dell’altro. Le donne sono più spesso co- dipendenti. Si troveranno, cioè, in situazioni affettive dipendenti legandosi principalmente a quegli uomini che appariranno loro particolarmente bisognosi d’aiuto. 
La storia di Alessia e Carlo, ci aiuterà a capire.

Ho conosciuto Carlo quando avevo solo 17 anni e mi è piaciuto, nonostante fosse brutto e tutti me lo facessero notare, perché era un ragazzo serio, sensibile, riservato. Il suo aspetto fisico mi portava a provare tanta tenerezza nei suoi confronti. Ho sempre pensato che la bellezza sta dentro e non fuori e volevo dare “una lezione” a quelli che la pensano diversamente. Volevo dimostrare a tutti, e a tutti i costi, che ciò che loro si ostinavano a “scartare” per me era prezioso. Carlo ha avuto un’infanzia molto difficile, proprio come la mia. Sua madre, se ne è andata quando lui aveva pochi mesi, per ritornare con il suo primo amore. Mia madre, lei no, lei è rimasta, ma non ha mai smesso di ricordarmi che sono nata “da un preservativo bucato”. Carlo, quando ci siamo incontrati, mi ha detto subito che voleva una storia “seria”, che aveva bisogno di un punto di riferimento, di una persona importante. Lui non amava stare dietro alle ragazze né fare il bulletto. Io, avevo la sua stessa necessità, cercavo il principe azzurro, il grande amore di una vita. Volevo appartenere a qualcuno, qualcuno che mi voleva davvero. Qualcuno per cui, non fossi capitata per caso. Che mi avesse scelta. Ero convinta di essere stata fortunata ad incontrare uno come lui e che l’attrazione fisica sarebbe arrivata pian piano. I primi tempi sono stati difficili. Carlo era terrorizzato dall’idea di perdermi. Aveva bisogno della mia presenza costante, di una dedizione assoluta. Cominciò col criticare le mie amiche, definendole “civette” e “poco di buono” e, conseguentemente, questo determinò il fatto che io non le frequentassi. Veniva anche a prendermi all’uscita di scuola per evitare che io percorressi la strada di ritorno a casa con i miei compagni. Ho deciso di rinunciare alla scuola, alla mia famiglia, e mi sono trasferita da lui. Sentivo che era la cosa giusta da fare. Carlo aveva sofferto troppo, soffriva ancora troppo e meritava tutto il mio tempo, la mia dedizione, la mia pazienza. 
Non mi lamentavo: all’inizio cercavo, comportandomi come lui voleva, di ridargli la sicurezza che aveva perso a causa di una precedente storia d’amore, finita male. Perché la sua ex non lo amava abbastanza e non era pronta a rinunciare a nulla per lui. Non mi imponeva nulla, ma riusciva ad ottenere da me ciò che voleva lamentandosi e mostrando sofferenza e incertezza. Io pensavo che lui mi amava e, consideravo questo aspetto come fondamentale nella mia vita. Arrivò ad essere geloso del mio cane e dei miei libri perché -diceva- passavo più tempo con loro che con lui.
Dovevo dimostrargli continuamente di non essere cambiata. Aveva il terrore che le persone cambiassero. Il mio tono di voce doveva essere sempre lo stesso altrimenti sorgeva in lui la paura di un mio probabile cambiamento e ciò significava dovermi giustificare anche per 2/3 giorni, fino a convincerlo del contrario. Diceva che ero una ragazza di “buona famiglia”per cui non era il caso che uscissi da sola anche solo per andarmi a comprare il giornale. Capii, che per lui, anche dieci minuti di solitudine potevano divenire insopportabili. Ho smesso di uscire, non vedo più nessuno, dedico la mia giornata solo a lui. Ha bisogno di me e io mi sento utile e per la prima volta, veramente indispensabile. Questo mi fa sentire appagata e felice.


Gravi e lunghe separazioni affettive subite nell’infanzia lasciano grosse cicatrici nell’anima.
 Lo studioso che, maggiormente, ha sostenuto questa teoria è John Bowlby. Secondo Bowlby il neonato sviluppa, nei confronti della madre un <> che ha la stessa funzione biologica dell’autoconservazione. E’ un comportamento necessario alla sopravvivenza. Lo stesso comportamento si manifesta nei cuccioli che si comportano in modo tale da stare vicino alla madre. Attaccarsi ed affidarsi è un modo per sfuggire al pericolo. Qualsiasi esso sia. E’ una strategia per esorcizzare la paura. Qualsiasi paura. Accompagnarci a qualcuno è un meccanismo che mettiamo in atto anche da adulti per affrontare, protetti, tutte le situazioni che temiamo. Chi da bambino ha vissuto bene e pienamente il periodo di attaccamento e, da adulto maggiormente in grado di affrontare la separazione. Tutte le separazioni. Il passaggio dall’attaccamento alla separazione avviene, gradualmente, attraverso la soddisfazione di un altro bisogno: quello di avere una base sicura. Il bambino comincia ad allontanarsi pian piano da sua madre per esplorare, conoscere, sperimentare. Per farlo in maniera sana ha bisogno comunque, di saper che lei è lì. Che lo osserva a distanza, ma lo osserva. Che lo protegge. Si allontana, sapendo che sua madre è dietro le sue spalle e, in qualsiasi momento lui si volti, lei c’è. Questo gli da forza. La forza di allontanarsi sempre di più e più a lungo. Il pensiero che ci sia qualcuno a “coprirci le spalle “, quando ci allontaniamo, viene col tempo introiettato. Lo portiamo cioè dentro di noi, arrivando a non aver più bisogno della presenza fisica, ma del pensiero, dei pensieri, di quella persona. Nostra madre c’è. Anche se non è presente. 
La maggior parte noi morirebbe se sapesse di non essere pensato, da nessuno. Proprio quando pensiamo o temiamo di non essere pensati stabiliamo quelli che Bowlby definisce <>. Temendo di non essere accettati, facciamo di tutto per far apprezzare la nostra presenza. Temendo di essere allontanati imponiamo noi stessi. Temendo di essere dimenticati facciamo in modo che sia, anche se in negativo, indelebile il ricordo di noi. 
Allontaniamo quelli che amiamo perché è troppo quello che chiediamo. Li allontaniamo perché abbiamo paura di perderli. 
E così succede. Li allontaniamo con la nostra dipendenza.
La dipendenza affettiva è la più alta espressione dell’attaccamento ansioso. Può essere una caratteristica, un modo di porsi o una vera e propria malattia. Il naturale decorso di quell’antica ferita che stenta a rimarginarsi. Molti si chiedono come sia possibile che portatrici di questa ferita siano le donne più che gli uomini. Il discorso può essere semplicissimo e complicato, al tempo stesso. 
I maschi, poverini, vengono, in fretta abituati all’indipendenza. 
A loro si insegna che la forza è libertà. Esattamente come le femmine, patiscono, nell’infanzia, la separazione e l’abbandono. Ma a loro, pur se con l’inganno, di quell’abbandono, viene spiegato il motivo. Viene dato un movente.
“Gli uomini sono più forti, non devono piangere, gli uomini non hanno bisogno di nessuno.” Molti crescono con la rabbia di non aver potuto esprimere la propria rabbia, magari piangendo. 
Ma con la certezza, per questo, di essere più forti. Alle donne, questo non succede. I bambini giocano con i trenini e con le macchinine, le bambine con le bambole o con i pupazzi. I bambini imparano cioè a rapportarsi, ad affezionarsi, a legarsi alle cose, le bambine alle persone.
Alle donne s’insegna la dipendenza. Crescono nella dipendenza. Misura del loro valore di donne è la capacità di essere dedite a qualcuno, accondiscendenti, succubi, vittime. 
“Una brava donna” è colei che non chiede, non si espone, non pretende. “Una brava ragazza” è quella che rinnega la sua libertà, i suoi spazi. Quella che sta a casa, che non tradisce, che non ha “grilli per la testa”. Una brava ragazza è dipendente. Bisognerebbe essere dipendenti, per essere scelte, accettate ed apprezzate. Non esserlo, quando per gli altri, diventiamo un peso.
La dipendenza psicologica consiste essenzialmente nell’affidare a qualcuno o a qualcosa, (ad esempio ad una sostanza) il compito di risolvere i nostri problemi di tristezza, senso di inadeguatezza e sfiducia in noi stessi.
Il termine dipendenza, dal latino dipendere significa “pendere da”. Il Dizionario Enciclopedico di Scienze Mediche Taber da a questo termine più di un significato:
1) Essere coinvolto, per una varietà di ragioni, in una delle diverse forme di comportamento ripetitivo, come giocare d’azzardo, mangiare disordinatamente, guidare spericolatamente, che possono riferirsi vagamente alla dipendenza, ma il termine è riservato più correttamente ad indicare la dipendenza da stupefacenti, alcol e tabacco.
2) Stato di soggezione verso un altro o forma di comportamento che denota incapacità di prendere decisioni.
3) Dipendenza fisiologica che può o non accompagnare un forte desiderio per una droga.
Come si può dedurre una dipendenza è innanzi tutto un comportamento ripetitivo, un comportamento spesso incontrollabile, un’ossessione. Incapace di controllare il proprio istinto è il giocatore d’azzardo, il bulimico, l’alcolista, il tossicomane, l’innamorato- dipendente.Non è un caso se parliamo di istinto.
Una dipendenza è come una fame improvvisa che chiede di essere tempestivamente saziata ma che non sempre porta a sazietà. Spesso si avverte un senso di vuoto maggiore legato ad una specie di nausea, un vomito.
Molti sono gli Autori che negli anni hanno scritto di dipendenza: medici, psicologi, psicoterapeuti, sociologi, antropologi. Ciascuno dal proprio punto di vista e con i propri strumenti ha cercato di rispondere a tutti gli interrogativi legati a questo tipo di disagio.
Difficile, è risultato, unificare le diverse forme di dipendenza, riportarle ad un comune denominatore, riabilitarle attraverso un unico intervento terapeutico.
Le dipendenze non sono tutte uguali, i dipendenti si.
Una persona dipendente cerca il senso del proprio valore nella approvazione degli altri. Alla base della dipendenza c’è sicuramente un problema di autostima: la dipendenza nasce, come abbiamo visto, da un cattivo rapporto con le figure di riferimento. Con le figure d’appoggio. Ciò porta ad un cattivo rapporto con se stessi, ad uno scarso amore per sé, al bisogno costante di appoggiarsi o di farsi sostenere da qualcosa o da qualcuno. La convinzione è che non siamo capaci dire nulla, neanche di farci amare. Se nostra madre non ci ha amato, allora proprio non lo meritiamo. Da soli non ci si sente in grado di camminare, di fare, di sperimentare, di agire, neppure di esprimere un’opinione.
Una persona sana si rifiuta di farsi maltrattare da qualcosa o da qualcuno; la dipendenza ci rende vittime di una situazione in cui l’altro, sia esso uno sostanza o una persona, è comunque il più forte. La dipendenza è una debolezza. Ecco perché i maschi non la manifestano chiaramente come le donne. I maschi, continuano anche da adulti, ad interagire con le cose, non con le persone. Quando non sono stati amati abbastanza, quando sono stati allontanati o abbandonati, sviluppano una serie di dipendenze rivolte più alle cose che alle persone. Loro, i maschi, sono, più delle donne, alcolisti o tossicodipendenti.
L’alcool, o la droga, diverrebbero una sorta di coperta di Linus ossia una oggetto transazionale che facilita il distacco dalle figure genitoriali e quindi la crescita.
La dipendenza, in questo modo, diviene per loro quasi una forza.
Ed è con la forza che, gli uomini, reagiscono alle loro dipendenze affettive. 
Molti diventano violenti, maneschi. Ricatteranno e mortificheranno la persona che temono li abbandoni. Ma lo faranno mostrandosi forti e facendo sentire l’altro sempre più debole ed inadeguato. La dipendenza affettiva maschile diviene legittimata e “mascherata” da altri fattori: la gelosia, la rabbia, l’onore, la reputazione. Situazioni ancora, purtroppo, socialmente riconosciute, e quindi approvate e compatite.
Tratto da Marinella Cozzolino “Il peggior nemico. Storie di amori difficili” Armando Editore 2001
 
 


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